Licenziamento economico: obbligo di repechage esteso anche a mansioni diverse ed inferiori del lavoratore licenziato

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Il case history di oggi riguarda un tema che sicuramente interesserà molti di voi: il licenziamento economico e il demansionamento.

Nel caso specifico, un lavoratore ha fatto causa ad una SRL per impugnare il licenziamento intimatogli per giustificato motivo oggettivo consistente nella soppressione del ruolo di addetto a macchine escavatrici. L’ex lavoratore ha rilevato infatti come i libri matricola denotassero nuove assunzioni di manovali da destinare a quella la mansione. In simile contesto il Giudice ha dato ragione del dipendete, traendo il convincimento che fosse mancata “ogni prova dell’impossibilità di repechage” con conseguente illegittimità del licenziamento.

Era infatti emerso come pur essendo venuta meno la necessità di personale addetto alla conduzione di macchine escavatrici, la società avesse assunto nuovi manovali, disattendendo la richiesta del dipendente di essere preposto a mansioni equivalenti o anche inferiori.

La Corte d’Appello adita ha confermato la sentenza di primo grado dichiarando anch’essi illegittimo il licenziamento.

Il datore di lavoro è ricorso in cassazione, denunciando violazione dell’art. 2103 c.c. (testo previgente la riforma ex art. 3, D.Lgs. n. 81/2015) e sostenendo che l’obbligo di repechage non si estendeva anche alle mansioni inferiori. Il gravame, però, è stato respinto, risultando tale assunto errato in diritto sulla scorta delle seguenti argomentazioni.

Dall’evoluzione giurisprudenziale ricostruita dalla Cassazione risulta che un risalente orientamento, più rigido, si è nel tempo aperto alla possibilità di derogare al divieto di adibizione a mansioni inferiori per quelle ipotesi in cui l’interesse del dipendente al mantenimento del posto di lavoro fosse prevalente alle esigenze di salvaguardia di una professionalità che verrebbe, comunque, compromessa dalla cessazione del rapporto.

Un punto fermo si trova in Cass. S.U. n. 7755/1998 secondo cui la sopravvenuta infermità permanente giustifica il recesso datoriale, a condizione che l’attività del prestatore sia ineseguibile e non sia possibile assegnarlo a mansioni anche inferiori, sempre che sussista un consenso del lavoratore in questo senso, ciò che costituirebbe un adeguamento del contratto alla nuova situazione di fatto.

Pertanto “il datore, prima di intimare il licenziamento, è tenuto a ricercare possibili soluzioni alternative e, ove le stesse comportino l’assegnazione a mansioni inferiori, a prospettare al prestatore il demansionamento, divenendo libero di recedere dal rapporto solo qualora la soluzione alternativa non venga accettata”.

La Corte ha inoltre recentemente ribadito che tali ragioni conservano piena validità anche per le ipotesi di licenziamento per GMO conseguente a soppressione del posto di lavoro in conseguenza di riorganizzazione aziendale (Cass. n. 4509/2016).

L’obbligo di repechage gravante sul datore di lavoro “non si estende anche alle mansioni inferiori a quelle del lavoratore licenziato”. In correlazione si ravvisa una contraddittorietà della motivazione laddove si riferisce a nuove assunzioni, pacificamente riguardanti la mansione di manovale e quindi sicuramente mansione inferiore rispetto a quelle dell’inquadramento contrattuale di appartenenza del M..

Come noto, condizione di legittimità di un licenziamento disposto per ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, a mente della L. n. 604 del 1966, art. 3 è anche l’impossibilità di utilizzazione del lavoratore destinatario della risoluzione del rapporto in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte.

Pacifico che la verifica della possibilità del cosiddetto repechage vada condotta con riferimento a mansioni equivalenti.

Più controverso è il fatto se tale verifica debba investire anche la possibilità di adibizione a mansioni inferiori, frapponendosi ad essa l’ostacolo dell’inderogabilità della norma contenuta nell’art. 2103 c.c., comma 2 – nel testo pro tempore vigente, antecedente alla riformulazione introdotta dal D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 3 – che comminava la nullità di ogni patto contrario a quanto stabilito dal comma 1 disposizione codicistica citata.

Secondo una risalente giurisprudenza tale divieto “non consente deroghe neppure nell’ipotesi in cui la sua applicazione possa risolversi in un pregiudizio per il lavoratore, in quanto – sancendo la nullità di ogni patto contrario al fine di eliminare ogni possibilità di elusione del divieto di variazione deteriore della posizione del lavoratore, e privilegiando così l’esigenza della certezza – ha adottato uno strumento di tutela rigido, che opera in tutte le direzioni e può, quindi, in condizioni particolari, comportare anche un sacrificio per il prestatore di lavoro” (v. Cass. n. 1026 del 1980; Cass. n. 7281 del 1983).

Nel corso del tempo, al cospetto del divieto inderogabile di assegnare il lavoratore a mansioni inferiori, si sono configurate eccezioni non solo da parte della legge (ad L. n. 223 del 1991, ex. art. 4, comma 11; L. n. 68 del 1999, art. 4, comma 4; L. n. 151 del 2001, art. 7, comma 5) ma anche ad opera della giurisprudenza, sull’assunto razionale che le deroghe all’espressa previsione di nullità sono giustificate nelle sole ipotesi in cui vi è una oggettiva prevalenza dell’interesse del dipendente al mantenimento del posto di lavoro, rispetto alla salvaguardia di una professionalità che sarebbe comunque compromessa dall’estinzione del rapporto.

In tale sviluppo risulta fondamentale l’arresto delle Sezioni Unite di questa Corte (sent. n. 7755 del 1998), secondo cui la sopravvenuta infermità permanente e la conseguente impossibilità della prestazione lavorativa possono giustificare oggettivamente il recesso del datore di lavoro dal rapporto di lavoro subordinato, ai sensi della L. n. 604 del 1966, artt. 1 e 3, a condizione che risulti ineseguibile l’attività svolta in concreto dal prestatore e che non sia possibile assegnare il lavoratore a mansioni equivalenti ai sensi dell’art. 2103 c.c. ed eventualmente inferiori, in difetto di altre soluzioni. Secondo il Supremo Collegio le esigenze di tutela del diritto alla conservazione del posto di lavoro sono prevalenti su quelle di salvaguardia della professionalità del prestatore, rilevandosi già all’epoca che “ad una non rigida interpretazione dell’art. 2103 c.c. inducono le maggiori e notorie difficoltà in cui versa oggi il mercato del lavoro”.

Il principio è stato ribadito in successive pronunce che hanno valorizzato come l’assegnazione a mansioni inferiori del lavoratore divenuto fisicamente inidoneo costituisce un adeguamento del contratto alla nuova situazione di fatto, adeguamento che deve essere sorretto, oltre che dall’interesse, anche dal consenso del prestatore (Cass. n. 15500 del 2009; Cass. n. 18535 del 2013).

Sull’aspetto del ruolo della volontà del lavoratore nella vicenda risolutiva assai di recente (Cass. n. 10018 del 2016) si è precisato che, poiché la inidoneità del prestatore giustifica il recesso solo nell’ipotesi in cui le energie lavorative residue non possano essere utilizzate altrimenti nell’impresa, anche in mansioni inferiori, il datore, prima di intimare il licenziamento, è tenuto a ricercare possibili soluzioni alternative e, ove le stesse comportino l’assegnazione a mansioni inferiori, a prospettare al prestatore il demansionamento, divenendo libero di recedere dal rapporto solo qualora la soluzione alternativa non venga accettata.

Gli esposti principi, affermati in caso di sopravvenuta infermità permanente con conseguente impossibilità della prestazione, hanno trovato ingresso anche in altre ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (v. Cass. n. 21579 del 2008). Così in una ipotesi di soppressione, a seguito della riorganizzazione aziendale, del posto di lavoro si è statuito che “l’art. 2103 c.c. si interpreta alla stregua del bilanciamento del diritto del datore di lavoro a perseguire un’organizzazione aziendale produttiva ed efficiente e quello del lavoratore al mantenimento del posto, in coerenza con la ratio di numerosi interventi normativi, sicché, ove il demansionamento rappresenti l’unica alternativa al recesso datoriale, non è necessario un patto di demansionamento o una richiesta del lavoratore in tal senso anteriore o contemporanea al licenziamento, ma è onere del datore di lavoro, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, prospettare al dipendente la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori compatibili con il suo bagaglio professionale” (Cass. n. 23698 del 2015).

Ancor più di recente si è ribadito che le ragioni poste a fondamento della ricordata pronuncia delle Sezioni Unite n. 7755 del 1998 conservano piena validità anche nell’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo conseguente a soppressione del posto di lavoro in conseguenza di riorganizzazione aziendale; anche in questa ultima ipotesi è infatti ravvisabile una nuova situazione di fatto (inerente al nuovo assetto dell’impresa anziché alla sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore) legittimante il consequenziale adeguamento del contratto, così come identiche sono le esigenze di tutela del diritto alla conservazione del posto di lavoro (prevalenti su quelle di salvaguardia della professionalità del lavoratore); al contempo analoghi devono ritenersi i limiti alla rilevanza della utilizzabilità del lavoratore in mansioni inferiori, da individuarsi nel rispetto dell’assetto organizzativo dell’impresa insindacabilmente stabilito dall’imprenditore e nel consenso del lavoratore all’adibizione a tali mansioni (in termini Cass. n. 4509 del 2016, conf. a Cass. n. 21579/2008 cit.).

Alla stregua degli esposti insegnamenti il mezzo di onere fondato sull’assunto, errato in diritto, secondo cui l’obbligo di repechage gravante sul datore di lavoro “non si estenda anche alle mansioni inferiori a quelle del lavoratore licenziato”, non può che essere respinto, atteso che, come riportato nello storico della lite, il lavoratore aveva segnalato sin dall’atto introduttivo del giudizio la circostanza delle nuove assunzioni di manovali e la mancata offerta datoriale di compiti equivalenti o anche di livello inferiore e che, nel corso del giudizio medesimo, tali fatti – secondo la Corte territoriale – avevano trovato conferma, conclamando la violazione dell’obbligo di repechage.

Con sentenza del 21 luglio 2016, la Corte ha così rigettato il ricorso con condanna parte ricorrente al pagamento delle spese legali.

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