Insegne confondibili? Prevale quella usata per prima

insegne confondibili

Oggi parleremo di un tema che sicuramente interesserà molte aziende e attività commerciali, ovvero: le insegne.

Vi sarà sicuramente capitato di imbattervi in Insegne confondibili? Prevale quella usata per prima, e chissà che non ne sia nato un contenzioso. Il case history di oggi riguarda proprio questo.

Nel conflitto tra ditte ed insegne confondibili, in ragione dell’oggetto dell’attività e del contesto territoriale di riferimento, chi ne abbia fatto uso per primo – limitatamente alla ditta in epoca anteriore alla istituzione del registro delle imprese – prevale e può conseguire le opportune modifiche ed integrazioni dell’altra, pur se il titolare di questa l’abbia registrata per primo, successivamente all’istituzione del richiamato registro. Inoltre il giudice, quanto alle insegne patronimiche, può disporre la totale eliminazione del cognome confondibile da quella usata per seconda. Così ha stabilito la prima sezione civile della Suprema Corte di cassazione con la sentenza n. 971/2017.

Sicuramente si tratta di un case history che non mancherà di interessare molte persone, anche perché è tra le poche interamente incentrate sulla ditta e sull’insegna. La motivazione però, risulta essere eccessivamente sintetica, a tratti oscura e discontinua e – in un punto decisivo – ambigua.

Questi i fatti di causa: il titolare di una farmacia napoletana lamenta che, nella stessa zona, insiste un’altra farmacia, con la stessa ditta (ed insegna). Entrambe le insegne riportano lo stesso cognome, nonostante la titolare della seconda farmacia, che porta un diverso cognome, aveva acquistato azienda e ditta fin dal 1989 facendone d’allora uso ininterrotto.
Ella però, anche dopo l’istituzione del registro delle imprese, non aveva proceduto alla registrazione della propria ditta, al contrario del dottore titolare della prima farmacia, che invece aveva provveduto tempestivamente a tale incombenza.
Da qui appunto l’azione, anche cautelare, di quest’ultimo che, come primo registrante, ha chiesto alla seconda di eliminare l’utilizzo del cognome in oggetto, in quanto fonte di confusione.
Vincitore in Tribunale, il dottore è però risultato soccombente in appello.
Da qui il ricorso in cassazione.

La questione di diritto affrontata è quella della individuazione del criterio di soluzione del conflitto tra ditte (e insegne) confondibili, facenti capo a concorrenti, e quindi della individuazione dell’imprenditore che, prevalendo, può conseguire le modifiche ed integrazioni della ditta dell’altro, conformemente a quanto prescritto dall’art. 2564, comma 1 c.c.. In materia di ditte ed insegne, infatti, non è prevista, come invece per i marchi, l’inibitoria.
Si radica qui anche un’altra differenza di rilievo tra la disciplina del marchio registrato e quella della ditta.
Per il primo, infatti, prevale il marchio anteriore in quanto registrato per primo, ai sensi dell’art. 20 cod. proprietà industriale; nondimeno, in caso di preuso, non distruttivo della novità del marchio altrui registrato successivamente, il preutente “ha diritto di continuare nell’uso del marchio”, nei limiti di cui all’art. 12, comma 1 a) parte finale cod. cit. (disposizione fondamentale ai fini della individuazione della disciplina del marchio di fatto).
La ditta, di contro, non è disciplinata dal codice della proprietà industriale, che vi si riferisce solo incidentalmente (ma cfr l’art. 22, che enuncia il principio della unitarietà dei segni distintivi); il suo regime giuridico (e così quello della insegna) è dettato dalle immutate disposizioni degli artt. 2563-2568 c.c., il cui mancato coordinamento con il codice del 2005 (anche dopo la profonda novellazione del 2010) ne costituisce uno dei maggiori limiti sistematici.
Mentre poi il marchio costituisce un diritto di proprietà industriale titolato, sicché la registrazione ha efficacia costitutiva (art. 2, comma 1 e 3, Codice della Proprieta industriale), la ditta, come gli altri segni distintivi diversi dal marchio (compresa, ovviamente, l’insegna), costituisce- o dovrebbe costituire- un diritto di proprietà industriale non titolato (art. 2, comma 4, cod. cit.), su cui cfr. Trib. Milano 11 settembre 2008 (nella specie con riferimento al marchio di fatto).
Così è opinione largamente diffusa che la fattispecie costitutiva del diritto sulla ditta (quale segno che contraddistingue l’impresa) sia l’uso, cui consegue una notorietà qualificata (tale, vale a dire, da fare percepire quel segno come distintivo di una data impresa da parte del pubblico di riferimento).
Vi è però, almeno in apparenza, un ostacolo normativo: l’art. 2564, comma 2, c.c. – che viene in rilievo proprio nel caso di specie – enuncia, con riferimento al conflitto tra ditte confondibili facenti capo a concorrenti, che l’obbligo di modifica/integrazione compete a chi ha iscritto la propria ditta nel registro delle imprese in epoca posteriore rispetto all’altro.
L’obbligo di inserimento nel registro delle imprese anche della ditta è previsto dall’art. 2196, 1° comma c.c.; l’art. 2193 c.c., in via generale, disciplina poi l’efficacia dell’iscrizione nei confronti dei terzi.
La lettera della legge sembra quindi far ritenere che il diritto sulla ditta si acquista con l’iscrizione.
La questione ha, evidentemente, una ricaduta operativa: appunto l’individuazione del criterio per la risoluzione del conflitto tra ditte confondibili.
In effetti, con l’attuazione del registro delle imprese, in forza della legge 580/1993, art. 8 (e del regolamento di attuazione, D.P.R. 7 dicembre 1995, n. 581), si sono manifestati più decisamente orientamenti tout court favorevoli alla prevalenza, in caso di conflitto, della ditta registrata per prima, anche se registrata successivamente, almeno per le ditte registrate successivamente all’entrata in vigore della nuova disciplina.
Tuttavia, in senso opposto, sulla perdurante prevalenza dell’uso, e quindi sul carattere meramente dichiarativo dell’iscrizione nel registro delle imprese (che ha quindi al più una rilevanza meramente presuntiva) si osserva che:
a) un sistema di registrazione costitutiva si porrebbe in contrasto con l’art. 8 della CUP, la convenzione d’Unione (secondo cui la ditta è protetta in tutti i Paesi aderenti senza obbligo di deposito o di registrazione)
b) se vi è differenza tra la ditta ufficialmente scelta e registrata, e quella effettivamente usata nei rapporti con i terzi, è quest’ultima che prevale, e quindi è ad essa che dovrà farsi riferimento nel giudicare di eventuali conflitti con ditte di terzi.

La Cassazione (Cass. civ. n. 971/2017) non prende posizione, non espressamente, sulla questione, ed anzi sembra ignorare del tutto il dibattito giurisprudenziale (ma anche dottrinale) sull’argomento: i precedenti richiamati concernono profili marginali e non pertinenti.
In particolare, del tutto apoditticamente, è esclusa la rilevanza del principio di unitarietà dei segni distintivi (§ 9.3, peraltro solo con riferimento all’insegna), che pure era stato richiamato dalla sentenza impugnata, e dagli stessi motivi di ricorso (anzi, dai quesiti di diritto); né è poi sviluppato il tema, cruciale, del carattere costitutivo o meno della registrazione, pure oggetto di quesito di diritto: Cass. Civ. 971/2017 preferisce dilungarsi (§ 7, 7.1, sul regime “transitorio” di cui all’art. 100 disp. att. c.c., cessato appunto con l’istituzione del registro delle imprese, richiamando una remota e non chiarissima pronuncia al riguardo della Cassazione, peraltro non strettamente attinente al tema della ditta)
Inoltre, e sempre rapidamente, la sentenza richiama (§ 6.2) il principio di verità e le sue limitazioni (art. 2563 e 2565 c.c.), che però ha ben poca attinenza con il tema trattato, quello della risoluzione del conflitto tra il primo utente ed il primo registrante delle ditte confondibili.
D’altro canto la decisione, nel suo snodo cruciale, si risolve pressoché esclusivamente nella enunciazione (reiterata) di due principi di diritto, operanti per le imprese individuali e per i diritti da esse acquisiti che, per le imprese individuali nel periodo anteriore all’istituzione del registro delle imprese, non godevano di alcuna forma di pubblicità legale.
Il primo di tali principi (§ 7.2) afferma la prevalenza del preutente rispetto al concorrente che abbia registrato per primo la ditta confondibile (il quale, anzi, neppure acquista automaticamente il diritto sul segno), sempre che il preuso sia anteriore all’istituzione del registro delle imprese (come nella specie, dove il preuso della ditta patronimica risale al 1989, allorché la titolare acquistò l’azienda, una farmacia, e la relativa ditta, mentre la registrazione del medesimo patronimico nell’ambito di una ditta era stata effettuata dal concorrente solo successivamente al 1996).
La sentenza sembra pertanto affermare, implicitamente ma chiaramente che, successivamente all’istituzione del registro delle imprese, operi il criterio opposto a quello enunciato per il periodo intermedio, vale a dire quello della prevalenza (sempre e comunque? Anche sul punto la Cassazione tace) della ditta registrata per prima rispetto a quella preusata ma non registrata (o non registrata per prima).
Tale rigida conclusione è però messa in dubbio dal secondo principio di diritto (§ 7.3), in realtà forse un obiter che- pur preceduto da una premessa sulla azienda (per la quale, si osserva correttamente, non esiste e mai è esistita alcuna forma di pubblicità o di registrazione) – sembra generalizzare (quale che sia il periodo di riferimento), in caso di coesistenza di ditte confondibili, la prevalenza di quella preusata, rispetto a quella registrata per prima.
Neanche va trascurato che il primo principio neppure richiama la confondibilità tra i marchi, la cui presenza deve però ritenersi sottintesa in quanto – in mancanza – la questione del conflitto tra ditte neppure si porrebbe.
Più agevole, quanto alle insegne, l’affermazione della prevalenza, tra insegne uguali o simili (quindi confondibili) di quella usata anteriormente, in quanto, per le insegne non si configura alcun sistema di pubblicità legale (e tantomeno di iscrizione nel registro delle imprese).
Di grande interesse è l’affermazione del potere del giudice, in caso di insegne patronimiche, di disporre – certo come extrema ratio – la stessa \
Si tratta, nella sostanza, di una misura inibitoria, equivalente a quella prevista per i marchi, il che avvicina notevolmente la disciplina degli istituti in oggetto.
La giurisprudenza, di merito come di legittimità, pur se non di frequente ha già avuto modo di occuparsi delle questioni ora decise da Cass. civ. n. 971/2017.
Cfr., in primo luogo, Cass. civ. 10 luglio 1993, n. 7601 – relativa a fattispecie anteriore alla introduzione del registro delle imprese- la quale aveva affermato che la società commerciale, che abbia fatto uso di una denominazione sociale senza provvedere all’iscrizione della stessa nel registro delle imprese, è tenuta a modificarla, indipendentemente dall’eventuale preuso, quando altra società abbia iscritto nel detto registro una ditta identica o anche confondibile. Peraltro, in motivazione, la pronuncia attribuiva una certa rilevanza al preuso (facendo rilevanza alla circostanza che, nella specie, era escluso che «da parte di chi aveva adempiuto l’onere della registrazione, vi fosse stata conoscenza, in epoca anteriore alla registrazione, dell’uso altrui della denominazione controversa»).
La successiva Cass. civ. 16 agosto 1996, n. 7584 aveva invece affermato che, in caso di ditte confondibili “l’obbligo di modificare ed integrare la denominazione sorge a carico dell’imprenditore che, nel regime previgente all’attuazione del registro delle imprese, abbia di fatto utilizzato per secondo la denominazione, anche se in un ambito territoriale diverso rispetto all’altro imprenditore”.
Si noti che nell’economia della decisione l’istituzione del registro delle imprese non ha giocato un ruolo significativo, evidentemente sul presupposto che esso non potrà mai sostituirsi all’uso effettivo della ditta, alla spendita nel mercato che ne determina la notorietà e che costituisce il presupposto ed il limite della relativa tutela.
Di particolare rilievo Cass. civ. 27 marzo 1998, n. 3234 (sull’opportuno presupposto che “ la tutela apprestata dall’art. 2564 c.c., infatti, non incontra alcun limite nella natura dell’impresa e non è circoscrivibile – con riguardo alla ditta, alla ragione sociale od alla denominazione sociale – alle sole imprese commerciali, essendo riferibile a qualunque imprenditore, individuale o sociale (con estensione, secondo talune posizioni dottrinarie e della giurisprudenza di merito, alla denominazione dell’associazione non riconosciuta)”), ha affermato espressamente che per il preuso della ditta (irregolare o ufficiosa) la tutela è accordata a condizione che il preutente fornisca la prova che i terzi – e quindi anche l’imprenditore che l’abbia poi iscritta – erano a conoscenza di quell’uso; la S.C. si ricollega, al riguardo, non solo ad un diffuso orientamento dottrinale, ma anche ad un più remoto orientamento giurisprudenziale, espressamente richiamato.

Variegata è anche la giurisprudenza di merito; Trib. Catania 9 ottobre 2001 sembra propendere per il criterio della priorità della registrazione della ditta (mentre, per le insegne, il conflitto è risolto dalla priorità dell’uso); sostanzialmente in termini è Trib. Roma 2 aprile 2004.
Cfr. poi Trib. Bologna 3 giugno 2010 che, muovendo dal rilievo che la semplice iscrizione della ditta/denominazione sociale nel registro delle imprese non ha efficacia costitutiva del relativo diritto, opera una distinzione, affermando che tale iscrizione, individua un criterio di risoluzione dei contrasti per i casi di sovrapposizione merceologica e territoriale, determinanti un rischio di confusione tra le ditte; nel caso in cui all’originaria coesistenza di ditte identiche in ambiti merceologici e territoriali distinti sopravvenga una sovrapposizione merceologica che pure determini un rischio di confusione, dovrà invece farsi applicazione del criterio previsto dell’art. 2564 cpv cit.
Più in generale, sulla confondibilità delle ditte cfr. Cass. Civ. 28 marzo 2007, n. 7651; sul contenuto della ditta, e sull’onere (per il titolare della ditta ritenuta soccombente), di procedere alle necessarie modifiche, integrazioni e differenziazioni, ai sensi dell’art. 2564 c.c., cfr. Cass. Civ. 17 maggio 2013, n. 12136.
Sulla liceità dell’inserimento, nella ditta, in funzione né distintiva né pubblicitaria, di un marchio altrui cfr. Cass. civ. 2 novembre 2015, n. 22350.
Quanto all’insegna, sul potere del giudice di inibire l’uso del cognome confondibile (così in sostanza inibendo del tutto l’uso dell’insegna) cfr. Cass. civ. 6 marzo 1993, n. 2740.

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